Sono alla ricerca di un libro, il mio sguardo cade sugli occhi neri, profondi e intensi di un viso coperto. Indugio sul titolo, “La schiava bambina”, riguardo quegli occhi e decido di comprarlo. Lo leggo in due giorni e quando arrivo all’ultima parola dell’ultima pagina, tiro un sospiro di sollievo. Il titolo è abbastanza eloquente, mi aspetto una storia triste, rappresentazione della vita difficile e umiliante che le donne vivono, ancora nel XXI secolo, in molte parti del mondo.
Ma la storia di Diaryatou è soprattutto un’ode alla speranza, una testimonianza della solidarietà e dell’empatia femminile, un vademecum per tutte le donne che si trovano nella medesima situazione della protagonista di questa triste vicenda. Perché la storia è vera ed è raccontata dalla ragazza stessa che l’ha vissuta.
Diaryatou è una bambina di soli quattordici anni, originaria della Guinea andata in sposa, per interesse, a un uomo ricco, all’inizio gentile, premuroso e attento, emigrato in Belgio. È costretta a staccarsi dai suoi affetti, dal mondo in cui è cresciuta speranzosa, desiderosa di una vita migliore. Per lei tutto è nuovo, vede oggetti di uso quotidiano per la prima volta con lo stesso entusiasmo dei bambini in un negozio di giocattoli. Ma l’esistenza della fanciulla – invidiata e incoraggiata dai parenti costretti a rimanere in un’Africa povera e maschilista – si trasforma in un inferno da subito. Le violenze sessuali e fisiche sono alternate a un fiume di bugie che il marito le dice, alla mancanza di rispetto, al dolore per la perdita di tre bambini e alla convinzione di meritarsi il trattamento riservatole dal compagno, al senso di colpa nei confronti della famiglia. Lui la costringe a mentire per ottenere asilo politico, il senso del dovere e la paura la inducono a seguire, sebbene contro voglia, gli ordini del marito. Non ha il diritto di parlare, di esprimere un’opinione su nulla, deve solo soddisfarlo, mandare avanti la casa e ubbidire.