La scrittrice, teologa, Michela Murgia nel suo libro “Ave Mary e la Chiesa inventò la donna”, (Einaudi 2011), analizza a trecentosessanta gradi la situazione della donna facendo riferimento all’influenza che ha avuto su tale concezione la religione cristiana. La Murgia sviscera tutti quegli elementi – pubblicità, considerazioni, opinioni, modi di dire, discorsi – che a noi passano inosservati, sui quali non riflettiamo - forse per abitudine, forse per educazione -
ma che in realtà celano una società e un pensiero che, a discapito delle lotte femministe, continua a mostrarsi maschilista e a indicare una strada obsoleta e difficilmente seguibile, che continua a condizionare la vita di molte donne.
La religione cristiana, nel corso dei secoli ha offerto, e offre tutt’oggi, una visione distorta e complessa delle figlie di Eva e del loro ruolo all’interno non solo della società, ma anche delle famiglie cristiane.
I padri della Chiesa hanno operato nel tempo in modo da creare nell’immaginario collettivo una raffigurazione della donna quale “angelo del focolare”, silenzioso e obbediente, e “infermiera” solerte, consacrata alla cura della famiglia, dedita alla nascita del genere umano, se non in modo concreto, almeno metaforico.
Gli esempi maschili presenti nella religione cristiana sono numerosi e facilmente gli uomini si possono identificare con loro. Per le donne la questione è differente e più complicata. Eva, la Madonna e Madre Teresa di Calcutta sono tra i pochi modelli cui ispirarsi. Per ovvie ragione la prima è da scartare. Sebbene la responsabilità della caduta dall’Eden e delle sue conseguenze sia da attribuire sia ad Adamo che a Eva, la tradizione e la religione attribuiscono tutta la colpa a quest’ultima. Per cui il nome della prima donna, che in principio significava “madre dei viventi” – perché la prima genitrice –, in seguito è diventato “madre dei morenti” perché, con la disubbidienza a Dio, ha condannato il genere umano alla mortalità. Alla donna cristiana è stato insegnato a dover pagare la colpa di Eva senza avere alcuna possibilità di riscatto perché il modello a cui ispirarsi era ed è Maria. La madre di Gesù è irraggiungibile in tutti i sensi – perché generatrice vergine, perché non morta (in nessuna testo viene detto che muore, ma sembra salire al cielo ancora viva), perché rappresentata nell’iconografia eternamente sofferente e perfetta, perché è senza peccato – ma alla quale ci si può avvicinare solo attraverso un’esistenza fatta solo di sofferenza, dolore e rinuncia.
Inoltre la rappresentazione più diffusa della Madonna è quella della “mater dolorosa”, eppure proprio nel momento di maggiore sofferenza, dopo il parto, Maria è rappresentata tranquilla e rilassata in ginocchio dinanzi alla mangiatoia, a osservare il proprio bambino. Le realtà è ben diversa, le donne sono doloranti e stravolte per la fatica e certo non possono sentirsi rappresentare dalla freschezza di Maria. La madre di Gesù non offre la possibilità alle donne di sentirsi a lei vicine, è la personificazione di concetti che vanno al di là della realtà, alla spiritualità e alla perfezione morale e fisica. A partire dal ‘900 la figura della Madonna si è ulteriormente allontanata dai canoni imposti e viene rappresentata in modo angelicato con la funzione di “consolatrice e mediatrice” tra l’ira celeste e la comprensione verso la debolezza umana. Maria è la «regina vergine assunta in cielo» che ha perso la sua entità di donna e madre.
Tuttavia la teologa sarda offre una nuova chiave di lettura di Maria, interessante e “sovversiva”, che, al contrario, potrebbe essere un modello per tutte le donne, simbolo di un riscatto cercato per secoli e proposto proprio dalla figura che sembra non essere a loro funzionale.