
Storia di madri e figlie, di un fillus de anima, uno di quei “bambini generati due volte, dalla povertà di una donna e dalla sterilità di un’altra”; storia di un rispetto che si crede immeritato e di una morte inizialmente solo intercettata poi visibile, difficile da capire, difficile da considerare come gesto amorevole. L’ultimo gesto dell’
accabadora (colei che finisce). Il romanzo di
Michela Murgia, edito da Einaudi, Premio Campiello 2010, ti costringe a scrutare le pagine con l’attenzione di un’emozione alla quale si fa fatica a rinunciare nell’avvicinarsi della conclusione.
È una scrittura che avvolge, che ti rende chiare le cose facendoti pensare “io, quell’argomento, l’avrei trattato proprio così, con quelle parole”, eppure non minimizza con qualche aforisma ad effetto i problemi ed i sentimenti che affronta. Nella Sardegna degli anni Cinquanta, tra i silenzi del “così è” e della solitudine che cerca appigli per non crollare, ci sono altri silenzi che gridano mentre si imbattono nei propri bisogni. C’è il silenzio della morte. E c’è il silenzio di chi sa di poter ricominciare.